di Armando Andria/ Campo di concentramento di Sachsenhausen, 35 chilometri a nord di Berlino, una qualsiasi giornata estiva. Schiere di visitatori, in gruppi organizzati o autonomamente, affollano i viali e le sale interne di quello che è stato uno dei più grandi luoghi di sterminio dell’era nazista, in cui dal 1936 al 1945 trovarono la morte circa 30.000 prigionieri. Sergey Loznitsa piazza la camera in una ventina di punti all’interno e nelle immediate adiacenze del campo, dando vita ad altrettanti piani fissi, fotografati in bianco e nero, della durata variabile attorno ai cinque minuti.

Questo è Austerlitz, documentario tanto singolare e denso nelle sue implicazioni estetiche, politiche, morali, quanto semplice nella sua proposta visiva.

Comprenderemo pian piano come questa semplicità sia in realtà solo apparente, ma è necessario prima di tutto dire di come i visitatori, che sono a tutti gli effetti gli “interpreti” del film, attraversano Sachsenhausen e dunque i “quadri” di Loznitsa. Qualcuno di essi si sofferma più a lungo ad osservare, forse a interrogarsi su quanto in quel luogo è avvenuto e sull’esperienza che nel presente ne consegue. Ma di certo i più compiono rapidamente il percorso, senza sussulti o interazioni, alcuni nemmeno si guardano attorno, più attirati dai propri smartphone.

Una sfilata di turisti distratti, forse annoiati, per lo più intenti a scattare foto e selfie. Gli sbadigli, le andature forzate, i pranzi al sacco da consumare nel tempo prestabilito, persino gli infradito e le t-shirt spensierate sono gli indizi riconoscibili di un turismo che consuma, senza reale intenzione, mete imperdibili al ritmo di una al giorno per guadagnarsi una settimana indimenticabile. Alla visione dell’ennesimo scatto in posa proprio all’ingresso del crematorio, viene voglia di chiedere asilo su Marte.

La percezione della violazione di ogni sacralità, il senso di smarrimento al cospetto di – azzardiamo – una forma riflessa di banalità del Male, sono amplificati dalla scelta dei punti macchina identificati da Loznitsa per raccontare il campo, nessuno dei quali appare particolarmente significativo o distintivo di per sé. Se non fosse per il cancello d’ingresso recante la famigerata iscrizione Arbeit macht frei, inquadrato ad apertura e chiusura del documentario, si rischierebbe, durante la visione, di perdere il senso del luogo, fino addirittura all’irriconoscibilità del campo di sterminio, appiattito a un non-luogo di impossibile contestualizzazione: dove siamo mentre guardiamo Austerlitz?

A questa indifferenza del turismo di massa, che imponendo la logica della fagocitazione è arrivato ad appropriarsi anche dell’esperienza e quindi della memoria futura dei campi di concentramento, Loznitsa oppone l’implacabilità di un occhio che attende, di un montaggio che nega la frammentazione per sottrarre il film alla moltitudine di immagini tutte uguali e quindi vane che si rincorrono attraverso i media. Come si può combattere la mercificazione estetica in atto in luoghi come Sachsenhausen?, si chiede Loznitsa. In questo senso, Austerlitz risulta opera esplicitamente teorica, mirabile a livello di concezione, sintetica come un’installazione videoartistica, e forse un testo di studio esemplare nell’opera di comprensione delle tendenze della cultura di massa contemporanea.

Ma ora torniamo ai punti dove Loznitsa colloca la macchina da presa (cominciamo a capire questa apparente semplicità…) provando a definirli meglio. La camera è sempre posta in posizione frontale. Inquadra ad altezza uomo, con una focale tale da consentire una perfetta leggibilità dell’azione lungo una linea d’orizzonte decisamente estesa, pur mantenendo una distanza ragguardevole dall’azione stessa. Sta lì immobile e aspetta, guardinga. Siamo ai limiti della telecamera nascosta: Loznitsa osserva o spia?

O se non vogliamo dir così, diciamo di sicuro che il suo occhio non si mette in gioco, ben attento a evitare la contaminazione con i visitatori del campo, trattati più come microrganismi osservati al microscopio che come entità pensanti e desideranti. Parte di una massa, non individui. Ad essi non è concessa parola (chissà quanti vorrebbero spiegare il perché di uno sbadiglio di troppo…), né movimento di macchina che ne approfondisca la reazione (per non parlare del vissuto) al di fuori di un quadro preimpostato. Quel che importa è solo la risposta comportamentale, rigidamente pre-definita da quel luogo e da quel tempo di esposizione, che alla fine non può non essere quella attesa. Altro che Wiseman. Loznitsa non avrebbe mai potuto essere sorpreso a Sachsenhausen, ci è andato per dimostrare una tesi.

Dunque un film cinico, questo Austerlitz? Il dubbio è forte.

Ma se la dialettica tra autore e personaggi è esclusa, bisogna altresì riconoscere ad Austerlitz una elevata capacità di dialogare con lo spettatore. Le riflessioni sin qui svolte – e le tante altre possibili – ne sono già testimonianza, ma più di tutto il film rimbalza a chi guarda una domanda che in parte forse scompagina quanto detto fin qui: come ci comporteremmo noi in un campo di concentramento? Ovvero, poste le questioni illustrate prima, o forse persino prima e al di là di esse, siamo davvero così sicuri che quello sbadiglio non possa essere il nostro?

Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Winfried G. Sebald, Austerlitz è un’altra tappa del lavoro ventennale dell’ucraino Sergey Loznitsa, molto apprezzato nel circuito festivaliero e per il resto pressoché invisibile, attraverso titoli come Anime nella nebbia, Maidan, The Event, My Joy. Passato fuori concorso all’ultima Mostra di Venezia, il film è stato recentemente recuperato dalla rassegna Venezia a Napoli – Il cinema esteso, che dal 2011 porta in città una selezione dei lavori presentati alla Mostra.

10 Replies to “Austerlitz di Sergey Loznitsa”

  1. Mi ha incuriosito molto, e mi è venuta voglia di vederlo.
    Mi sembra interessante lo sguardo fisso su chi sta guardando senza essere visto e (che a sua volta si guarda guardare attraverso il selfie) proprio per questo nella libertà forse di viversi un’esperienza (di memoria) senza il giudizio retorico di chi la storia la riporta o pretende di farlo, ingabbiandola. E mi sembra incisiva a questo proposito la moltiplicazione degli schermi non solo del regista ma anche dei telefonini e macchine fotografiche come prospettiva della visione. E tra queste suggestioni, a naso mi sembra un film sulle storture del concetto di memoria e sua museificazione e il contrasto coi vivi passanti seppur distratti forse lo evidenza. Chissà…

  2. Ma non è un museo, è un campo di concentramento… E la memoria con il presente ossessivo dei selfie e dei palmari vari si va a far benedire… La memoria implica una scelta di presenza consapevole e di responsabilità..

  3. Un ex campo di concentramento museificato dato che è fruibile da visitatori. Sono d’accordo con la responsabilità che implica la memoria anche e soprattutto per come viene trasmessa

  4. Sono d’accordo con Alessia, anche perché non sono per niente sicuro che non ci sia giudizio nello sguardo di Loznitsa…

  5. Ma è proprio perché Un campo di concentramento il cui significato viene stravolto dalla sua expositione e fruizione contemporanea con quello Che ne consegue (foto selphie col morto o quasi) a contorcere il senso di quella memoria. E forse l’esperimento è questo. Poi c”e da dire Che l’esperienza Che ciascuno fa di Un momento doloroso (seppur per l’umanita è soggettiva) e parlare di responsibilità Suona invece tanto retoricamente colpevolizzante.
    Io pero il film non l’ho visto. 🙂

  6. Non ho visto il film, ma volevo fare una domanda all’articolista (e a chi lo ha visto, ovviamente).

    Da quello che capisco, vi sono due piani valutativi: uno è il luogo, il più atroce dei luoghi possibili della memoria moderna. L’altro è l’acquario: i turisti che nuotano fra forni e baracche, si fanno i selfie, ridono, sbadigliano, strascinano i piedi con le ciabatte giapponesi, sonnolenti. Sullo sfondo della memoria dell’atrocità.

    Ora, sfiliamo lo sfondo: rimangono pur sempre i turisti, che sono gli stessi che in Grecia, che a S. Pietro e che in ogni dove. La massa globale che “va a vedere di persona”. Questa sarebbe la tesi del regista?

    Rimane però una domanda a contraddire: ma fra tutti i posti possibili del mondo, spiagge assolate, luoghi di ricreazione, discoteche in riviera: perché mai andare a sbadigliare in un campo di concentramento? La denotazione “turista”, addizionata allo sfondo sconvolgente, non ne altera forse la “connotazione”?

    Per cui l’acquario è apparentemente lo stesso, ma solo a chi osserva da fuori, a chi ne valuta solo l’entità estetica. Ma in realtà la sostanza cambia. Anche se non c’è nessuno che viene più davanti alla camera da presa a piangere e a stracciarsi le vesti? E magari in privato e silenziosamente ha le budella strappate via da quello che sta vedendo, e che è qualitativamente e quantitativamente diverso da un lungomare di Rimini — ma questo giace al di fuori e “oltre” i limiti della ripresa?

    In questo caso, il manifesto del regista sarebbe totalmente diverso.

  7. Se capisco la domanda di Fabrizio, si tratta proprio di quella che considero la questione cruciale del film, e credo su questo di aver già detto la mia: cioè che Loznitsa non si mette in gioco, non si avvicina per capire qualcosa in più rispetto a ciò che l’inquadratura gli offre.
    Ciò detto, per dovere di cronaca, riporto la sinossi ufficiale del film, che porrebbe Loznitsa in una posizione dubitativa:
    “Vi sono, in Europa, luoghi che sopravvivono come dolorose memorie del passato, fabbriche in cui gli esseri umani sono stati ridotti in cenere. Oggi questi siti sono luoghi del ricordo che, aperti al pubblico, accolgono migliaia di turisti ogni anno. Il film, ispirato all’omonimo romanzo di W.G. Sebald dedicato all’Olocausto, si concentra sui visitatori di questo luogo del ricordo creato sull’area di un precedente campo di concentramento. Perché la gente viene qui? Che cosa cerca?”

  8. Cioè, Armando, tu hai visto una sorta di occhio “olimpico” della camera che sospende il giudizio e mostra soltanto quel che accade, per come accade? Una sorta di fenomenologia dell’atarassia.

    Però i conti così non mi tornano.

    Tu ha un luogo di dolore, dove ci si fa male ad andare. E questo è il primo strato.

    Poi hai un fenomeno sociologico di massa, il turismo indifferente, un po’ cafone e un po’ cialtrone, che è caratterizzato dal fatto di “andarsi a divertire, o quantomeno a rilassare”. E questo è il secondo strato.

    Ma non è quello il posto giusto. I due piani non possono essere separati, sarebbe come se ti invitassi a cena ma non arriva mai nessuna portata, però la tavola è apparecchiata di tutto punto…

    Non vai a fare “il turista” in un sacrario dove ogni pietra, ogni porta, ogni rubinetto, ogni singolo oggetto ha assistito alla ferocia elevata fino alla massima potenza. Così in alto da rimanere come eco nell’umanità intera e per il resto dei secoli.

    Anche se ti levi un pedalino lì, per il solo fatto che sei lì, e che non sei solo ma in compagnia di una folla di fantasmi che reclamano il loro tributo: non ti stai levando un calzino, ma stai facendo molto di più.

    Possibile che il regista si sia messo così da parte, ed abbia separato i due piani, fino al punto da declamare tutto intero lo stupidario dell’insulsaggine? Neanche un graffio? Neanche una zampata per dire: “Hey, siamo proprio qui, siamo noi…, e soprattutto: siamo vivi..?”

  9. nel pezzo di Armando io ci ho visto anzitutto un dubbio, dunque non una sola interpretazione critica.
    poi ci ho letto un fastidio rispetto non ad una sospensione del giudizio da parte del regista che usa camere fisse ma verso una possibile tesi precostituita da questi svolta cinicamente nei confronti della massa. dunque l’affermazione di un giudizio da parte di un occhio esterno, ideologico e fisso, seppure la moltiplicazione delle mdp potrebbe apparentemente far pensare il contrario. ha voluto dimostrare che la massa è superficiale e inebetita, che ha quasi antropologicamente cambiato, con l'”aiuto” della tecnologia leggera ed eterea, la propria natura umana. si è vivi solo di riflesso, a distanza, si è vivi a metà in quanto si nega parte della propria storia umana, finendo per fare della memoria, senza la quale non c’è consapevolezza, un souvenir. una tesi abbastanza scontata nel caso, è vero. una tesi a priori con cui semplificare la complessità della situazione reale. e appunto nel pezzo ci ho letto questo dubbio/critica direi di “posizione”, cioè un dubbio rispetto alla posizione assunta dal regista: posizione formale e etica, le mdp fisse e la distanza dalle persone, e morale, lo sguardo esterno. ci si chiede se la scelta del regista di non aver voluto minimamente mostrarsi e mettersi in gioco, esibendo cioè una posizione dentro la messa in scena, e magari dando anche qualche zampata, non sia alla fine funzionale a mantenere ben saldo quel pensiero razionale che proprio quanto accaduto nei campi di concentramento ha finito per mettere fortemente in discussione. Adorno se non ricordo male diceva che dopo Auschwitz solo l’arte dell’assurdo di Beckett avrebbe potuto dire di nuovo qualcosa di umano. L’arte che è sensibile, che è un corpo, che è materia. l’arte che è sempre anche esperienza sensibile e quindi sempre relazione.
    un’ultima cosa sull’uso della mdp fissa. il cinema di Haneke è pieno di riprese con piano fisso, tuttavia la messa in scena che H. sceglie di operare include anche sempre l’inserimento di elementi ambigui e perturbanti, ovvero un modo tramite cui H. vuol porci dei dubbi rispetto alla verità di quello che vedono i protagonisti del film e di quello che vediamo noi spettatori, almeno di quello che vediamo a prima vista (penso a Niente da nascondere). Ecco questo è un modo per svolgere una tesi, sicuramente (non stiamo in un film di Cassavetes, insomma) , ma evidentemente è anche una tesi formale e morale che mi convince infinitamente di più.
    Ma a questo punto, dopo l’ennesima tesi, dobbiamo assolutamente vedere il film!

  10. Il problema che mi sforzavo di illustrare, alla fine, è il seguente.

    Se disponi le telecamere intorno ad un “evento” — indipendentemente dalla natura di quell’evento — e poi monti il girato in maniera neutra, omettendo scientemente di offrire una chiave, un indizio che dalla denotazone ti faccia risalire ai possibili significati: che differenza c’è fra un autore di tendenza ed un sistema di sorveglianza automatica?

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