Chi siamo… chiede all’eroe uno spot atmosferico immortalante l’attimo del ramarro caravaggesco in tanti volti di passanti… Rientate agostinianamente nel personale iO-S per scoprirlo.Immaginate ora il testo davanti ai vostri occhi non scritto da uno spettatore, ma in-ventato e assemblato da un processore informatico; e immaginate la premiata sceneggiatura, che il testo prova a recensire, scritta non da Spike Jonze ispirandosi al lavoro di Charlie Kaufman, ma da un collettivo di sistemi operativi. Immaginatevi soprattutto poco liberi d’immaginare, perché è un device negli organi di senso ad orientare, dopo fulminea analisi di sterminate banche dati galleggianti su internet, profilo e dating di ogni vostro più recondito giudizio o desiderio (sic Eric Schmidt dixit, profeta del futuro flâneur armato di Google-glass).
Niente è più intimo e personale nelle scatole di vetro degli abitanti di iOS-city (chiamiamolo così il rendering registico tra Los Angeles e Shangai), dove il film della vita scorre non attraverso menti progettanti programmi, ma in pc che programmano corpi agli automatismi progettuali del perfetto alter-ego. Se in-ventare vuol dire trovare, l’iO-S è l’Io inventato del nostro tempo, l’object-subject trouvé (ovvero inventé) par excellence: la vita riproducibile in file e folder, in portfolio e book di esperienze virtuali.
A volerlo trovare, il destino dei personaggi di questo film è ancora segnato, umanisticamente parlando, dagli equivoci relazionali della simbolica materna: la madre di Theodore incapace di affrontare le frustrazioni di un figlio, troppo ansiosa di raccontargli le proprie (in un gioco di specchi rotti), e quella virtualizzata nel pc-game da Amy, performante al punto di prevenirle tutte, le frustrazioni, fino a prosciugare ogni desiderio di nuova vita (in un gioco di schermi piatti ricomposti nella tomba-cloud della propria memoria rigida). Il resto delle vite possibili è un rac-conto (conto di fatti) di vissuti virtualizzati dalla Grande Madre (nonché serva e troia premurosa alla bisogna) Samantha, l’iOs ubiquamente personalizzabile.
Protagonista dell’inverosimile fiction (avverte di aver vissuto e desiderato solo quando si corica tra i bagnanti nel luogo reale di una spiaggia soleggiata, e accanto alle proprie vangoghiane calzature ricorda gli anni soft in cui il digitale non era che futuribile frontiera per dottorandi), è il simbolico amministratore delegato dell’esercito di riserva globale degli incapaci di vivere: chiedono a Theodore, i suoi fidelizzati clienti, di scrivere lettere che ricordino festose le ricorrenze della vita parentale. E se ogni autentica lettera può legare un senso di intimità comunicabile in silenziosa lettura, la delega scrittoria a terzi, al terziario avanzato, lo slega, il senso, nella commessa di un pacco da scartare: dentro vi si trova solo l’insensibilità all’altro, al proprio stesso poter sentir la vita.
Chi siamo dunque..? Firmatari, in qualsivoglia contesto enunciativo, di missive e messaggi compilati da non si sa più chi, ipertesti da noi solo acquistati o scaricati, noi sempre più ipertesi all’unico appuntamento pressante, quello col microconsumo gaudente di esperienze predisposte dall’analista globale di file e profili, uno iOs incistato e parlante attraverso una voce auricolare tanto priva di corpo quanto in grado di inverosimili e pro-vocatorie variazioni (auto)affettive.
Diciamolo però seccamente: quella del sistema operativo in grado di amare e patire la mancanza di un corpo (mentre nel film è dotato del più tattile degli organi intimi, la voce), persino invitato ad un petit-dejeneur sur l’herbe quale voce fuori campo-prato, è una panzana narrativa da animismo tanto tecno-patico quanto tele-patico, roba da facili calembour: I-phone, I-touch, ergo… est, dove Her è la prosopopea pronominale dell’asessuato It, del cloud cibernetico in grado di leggere biblioteche in nanosecondi e gestire l’altalena emozionale di centinaia di utenti infantilmente illusi di essere i soggetti di uno specifico amore (si meritano tutti l’avatar inkazzosissimo del loro videogioco di compagnia serale).
Il film non ha tanto a che fare con le illusioni della cosiddetta realtà (allude a questo il riferimento allo junghiano zen A.Watts?), ma con l’inservibilità e l’impossibilità stessa della vita, se questa è oramai avvolta da una nuvola wire-less in cui ogni desiderio e aspettativa è anticipato da un ordinatore di profili e scaricatore di upgrade nei body net connessi. Per questo accade, all’eroe-scrittore insicuro del suo pur efficace carisma affabulatorio, di trovare nello iO-S tanto una segretaria, la voce più interna del proprio io, quanto una lettrice-redattrice delle migliori missive di un’onorata carriera, che Theodore si vede recapitare in formato di libro a stampa (non ne servono più a iOs-city) con tanto di lettera di congratulazioni dalla garbata coppia di editori che lo ha titolato “Lettere dalla vostra vita”. Lo ha veramente composto qualcuno questo libro-rac-conto in forma di silloge, o è un ennesimo gioco-giogo dell’algoritmo ispiratore l’amorevole iOs di Samantha? La vita non esiste più là fuori, oramai inutile è rileggerne i legami col senso e con la sensibilità profonda, roba da archeologia dell’età precibernetica, roba da era in cui la lettura-scrittura di una lettera era solitario atto di dedizione e legame all’altro.
Una panzana narrativa, bravo Stefano, è proprio quello che ho pensato anch’io. ‘te piacerebbe’!