El Club di Pablo Larrain  é un film tagliente come una lama di rasoio, un tour de force in cui recitazione e messa in scena si fondono in un tutto organico di rara forza. Quinto lungometraggio di Pablo Larrain El Club corona il tragitto esemplare e singolarissimo del giovane regista e produttore cileno, conferendogli definitivamente l’ambito statuto di “autore”. Circondato da un’equipe collaudata da anni di lavoro comune, Pablo Larrain, raggiunge un osmosi perfetta con il suo team, creando, senza eccessi e con un rigore esemplare un’opera difficile da dimenticare. Restando fedele a se stesso e all’interesse che porta per la storia e la realtà politica e sociale del suo paese, il Cile, ancora una volta il regista osa guardare a fondo nell’oscurità dell’anima umana. Nel suo Kammerspiel grandiosamente spietato e profondamente umano Larrain mette in scena l’inferno sulla terra e sfida con un gesto lucido l’ipocrisia delle istituzioni ecclesiastiche. Il suo Club di preti accuratamente isolati e nascosti ma non per questo dimenticati in una casa-torre, arroccata su un’altura di fronte all’oceano, diventa l’ultima sponda di una redenzione impossibile. Da molti considerato come il film che avrebbe dovuto vincere l’Orso d’Oro della 65 Berlinale, El Club è stato ricompensato con il Grande Premio della Giuria. Nonostante l’indubbia delusione con grande eleganza Pablo Larrain ha  voluto rendere omaggio al suo collega Jafar Panahi. Il cinema – quello di Panahi e quello di Larrain – ha la forza di turbare le autorità, e d’inquietare le istituzioni.

Il testo che segue riprende la discussione di Pablo Larrain con i giornalisti nel corso della conferenza stampa del film.

 Com’è nato il progetto di El Club?

Io ho una formazione cattolica. Ho sempre frequentato delle scuole cattoliche e nel corso degli anni ho avuto l’occasione di conoscere tre tipi di sacerdoti; dei sacerdoti che sono delle persone per bene, degne di rispetto che intendono e vivono il loro sacerdozio come un cammino verso la santità, in seguito dei preti che oggigiorno sono incarcerati o devono presentarsi davanti alla giustizia ed infine una terza categoria di preti che sono, per così dire, improvvisamente scomparsi dalla circolazione e di cui nessuno sa più dire dove si trovino. Dove sono questi sacerdoti? Come vivono? Chi sono? Cosa fanno? Abbiamo iniziato a fare delle ricerche su questi casi ed abbiamo ben presto scoperto che la Chiesa cattolica durante decenni e decenni si è data da fare per nascondere sistematicamente questi sacerdoti e metterli al riparo dalla collera delle loro vittime e dal giudizio dell’opinione pubblica. Ho pensato che questo soggetto potesse offrire del materiale per un film ed è così che mi è venuta l’idea di un Club di preti “perduti”.

 

In El Club mostri come la Chiesa continui a nascondere e a proteggere – nonostante gli enormi scandali scoppiati negli ultimi tempi – un certo numero di sacerdoti colpevoli di vari reati?  Volevi fare un film di denuncia?

La nostra intenzione non era quella di denunciare, ma piuttosto quella di esporre questa tematica, in una maniera sovversiva e, spero, intelligente sperando che questo provochi delle discussioni. Quello che m’interessa veramente e che trovo affascinante in termini narrativi  é il fatto che la Chiesa non creda nella giustizia civile. La Chiesa ritiene che questi sacerdoti abbiano commesso dei peccati in primo luogo di fronte a Dio. Con questa scusa la Chiesa ha commesso delle atrocità coprendo sistematicamente dei misfatti per anni ed anni. Il compito della denuncia spetta alla stampa – peraltro la stampa si è spesso impegnata su questa strada- e spetta, ovviamente, alla Chiesa stessa. Mi sembra importante constatare come la Chiesa abbia un solo grande timore: i media e l’opinione pubblica. Un’organizzazione come la Chiesa cattolica è ordinata e strutturata come un sistema di comunicazione in cui, in fin dei conti, le relazioni con la stampa e l’opinione pubblica finiscono per essere ben più importanti delle dichiarazioni del papa stesso! Ciò che interessa davvero alla Chiesa cattolica sono i media; la chiesa è molto più preoccupata di ciò che si dice su di lei più che delle sue stesse azioni. Se il nostro film può provocare l’inquietudine e l’allarme che crea, diciamo, la televisione, allora potrebbe venire fuori qualcosa di veramente interessante! Se la Chiesa non crede nella giustizia laica allora immagino ritenga che i suoi membri siano diversi dal resto persone, dalla società civile in sé; questo fatto mi sembra alquanto curioso e significativo…

Il Cile è un paese particolarmente legato al cattolicesimo; come pensi che verrà accolto il tuo film?

In Cile, come in tanti altri paesi cattolici in questo momento, ci troviamo di fronte ad un processo di secolarizzazione della società in cui la gente si allontana sempre di più dalla Chiesa; questo fenomeno avrà forse delle ripercussioni anche sul modo in cui il film verrà recepito, staremo a vedere… Il problema che abbiamo con i nostri film in America latina é che facciamo dei film che vengono rispettati e forse visti in molte parti del mondo, ma non necessariamente nei nostri paesi. Uno dei nostri problemi fondamentali è una mancanza di sincronizzazione, per così dire, con i nostri paesi d’origine. I miei film, per esempio, vengono recepiti molto meglio all’estero e le critiche che vengono scritte fuori dal Cile sono migliori e più pertinenti rispetto a quelle scritte nel mio paese.  Non voglio lamentarmi, questa è semplicemente la realtà…

Quali pensi che siano le reazioni della Chiesa cattolica al tuo film e qual è la tua opinione sul papa attuale?

Quello che la chiesa fa è, fondamentalmente, non parlare assolutamente di questo tema; se la Chiesa condannasse ufficialmente il film, gli farebbe indubbiamente un’enorme pubblicità; per cui penso che la Chiesa lo ignorerà completamente. Per quanto riguarda il papa attuale penso che debba confrontarsi con un’istituzione che diventa sempre più complessa e complicata, immersa nei problemi. Il papa deve dunque affrontare una sfida enorme, ma ha anche una grande opportunità storica; quella di scegliere un cammino diverso da quello dei suoi predecessori provenienti – per così dire- dall’ala destra della Chiesa e di condurre la Chiesa su un cammino di luce.   

Il film inizia con una citazione della Genesi

Per quanto riguarda la citazione della Bibbia il versetto del genesi dice: “ Dio vide che la luce era una cosa buona e di conseguenza separò la luce dalle tenebre”. Subito dopo vediamo sullo schermo Alfredo mentre allena il suo cane da corsa facendogli percorrere dei grossi cerchi sulla spiaggia. Quanto ho voluto rappresentare simbolicamente attraverso questa scena è l’idea seguente: Dio pensò di separare la luce dalle tenebre ma questo, di fatto, non fu possibile. La prima immagine del film è quella di  un  cerchio perché ritengo che la luce e le tenebre siano indissolubilmente associate un movimento circolare dove l’una succede all’altra senza soluzione di continuità ed è proprio per questo che la luce e le tenebre non possono essere dissociate l’una dall’altra. Per me questa è l’idea di fondo del film! Non si trattava di mostrare i fatti emettendo un giudizio di ordine morale ma piuttosto di costruire un tutto organico, viscerale.  La tenebra e la luce sono mischiate l’una all’altra così come la terra e il cielo; il film è in questo senso un luogo chiuso su se stesso da cui è impossibile uscire. Non c’è una via d’uscita e Sandokan – la vittima di un tempo –  si rinchiude nello stesso luogo con questi uomini ed è l’inferno assoluto!

Fra i crimini di cui sono colpevoli i preti del “Club”, l’abuso sessuale su minori è quello che costituisce il fulcro del film….

Penso che si tratti di un soggetto umano e sociale molto importante; volevo trattarne nel film mostrandone tutta la veemenza e la specificità. In fase di preparazione abbiamo parlato con vari ragazzi che sono stati violentati da sacerdoti o da altre persone. Quello che mi ha particolarmente intrigato è  il fatto che le vittime non leggano in queste azioni quello che vi leggiamo noi e che non abbiano nessun complesso nel parlarne in un modo crudo e sconcertante.Si soffermano su tutti i particolari e ripetono la loro storia più volte, reiterando frasi e parole in una litania senza fine. Il modo in cui quest’esperienza traumatica viene raccontata nel film non quindi è una nostra invenzione. Se siamo stati in grado di rappresentare questo tipo di situazione è stato grazie alle persone che si sono confidate, raccontandoci per filo e per segno il loro vissuto. Quello che fa il nostro film  è di unire la vittima con il suo aguzzino creando così proprio quella situazione che rappresenta la psicosi assoluta della Chiesa.

Il tuo film tratta, fra le altre cose, anche il soggetto dell’omosessualità all’interno della Chiesa.  Questa tematica ti sta particolarmente a cuore?

L’omosessualità non mi sta più a cuore di molte altre tematiche che vengono  abbordate in El Club. Detto ciò, ritengo che la sessualità in generale sia il grande ‘complesso’ della Chiesa; é soprattutto l’idea assurda della castità che crea al giorno d’oggi i problemi maggiori in seno alla comunità ecclesiastica. Nel film c’è una scena molto indicativa a questo proposito: ad un certo momento il personaggio interpretato da Alfredo Castro si confida con il nunzio inviato dalla Chiesa e gli dice che l’omosessualità lo “umanizza” perché contiene un elemento che non esiste nelle relazioni eterosessuali essendo un atto d’amore puro che ha nulla a che fare con l’idea riproduzione. Ecco, io credo che questa sia una frase molto bella!

Come si sono preparati gli attori per essere in grado di riprodurre tutta una gestualità molto particolare e per poter darci delle interpretazioni così precise e raffinate? Avete fatto ricorso a dei consulenti ecclesiastici?

No, non ci siamo serviti di consulenti particolari per rappresentare le figure dei sacerdoti, vorrei però attirare l’attenzione sulla posizione molto peculiare della chiesa cattolica in Cile. Durante il periodo della dittatura infatti, la chiesa ha assolto un compito molto importante difendendo strenuamente i diritti umani dopodiché venti – trent’anni fa questa chiesa è bruscamente cambiata per diventare quel tipo di chiesa che conosciamo oggi. In Cile esistono attualmente vari casi di sacerdoti “scoparsi” .

 Come si è svolta la tua ricerca per il film?

Dato che si tratta di operazioni che la Chiesa cattolica compie nel segreto più assoluto, per raccogliere delle informazioni abbiamo dovuto ricorrere a dei metodi un po’ fuori dal comune.  Internet e i solidi modi di investigazione non sarebbero serviti a nulla. Abbiamo dovuto intervistare degli  ex membri del clero che ci hanno dato degli indizi su queste case- rifugio per i sacerdoti con “problemi” e sui motivi per i quali un membro della chiesa viene condannato ad una vita di ritiro e di penitenza. Abbiamo anche scoperto che c’è una congregazione internazionale, fondata negli Stati Uniti, chiamata Servi di Peráclito, che da oltre 60 anni si  prende esclusivamente cura dei sacerdoti che non sono più in grado di esercitare la propria missione, per vari motivi, anche se la maggior parte di loro hanno commesso dei crimini.

La scenografia non rimanda ad un’epoca precisa, la vicenda sembra immersa in una dimensione quasi atemporale….

Infatti El Club é un po’ un film fuori dal tempo perché quello che vi si racconta é una situazione che esiste ed che ha continuato ad andare avanti per moltissimi anni. Per questo abbiamo deciso di ambientare la storia in un luogo relativamente piccolo e sconosciuto. L’unico elemento rivelatore del fatto che la storia si svolge nel presente è la macchina con cui il padre ‘inquisitore’ parte alla fine del film, dovevamo usare una macchina e avevamo solo quella a nostra disposizione. Detto fra parentesi è la mia! (ride)

Potresti parlarci della tua collaborazione con Alfredo Castro, tuo attore feticcio, che ha partecipato a tutti i tuoi film finora?

Lavorare con Alfredo è sempre un’avventura affascinante; è stato proprio lui ad insegnarmi quasi tutto quello che so, per cui posso compartire veramente molte cose con lui. Penso che non riuscirò mai a fare un film senza di lui!

Nella tua sceneggiatura hai lasciato dello spazio all’improvvisazione?

Le riprese del film sono durate solo due settimane. Con Daniel Villalobos e Guillermo Calderòn abbiamo scritto la sceneggiatura prima di iniziare le riprese pensando agli attori che avrebbero interpretato i vari ruoli, ciò ci ha permesso di creare dei personaggi ben definiti, inquietanti e misteriosi. Nonostante ciò abbiamo lavorato molto anche sul set.Questo é un metodo che ho sviluppato con i miei attori nel corso di tutti gli anni in cui abbiamo lavorato insieme. Sul set affrontiamo molte situazioni con l’umore; l’umore è un’arma tagliente con la quale si riescono a dire delle cose molto serie. La nostra interazione è ludica; certe battute di ‘umore nero’ nel film non sono state scritte ma sono il risultato naturale, la risposta spontanea degli attori ad una mia domanda o ad un mio suggerimento. Il senso dell’umore cileno è una risposta alle avversità che colpiscono il paese piuttosto che uno scoppio di gioia e di vitalità.

Il levriero è un animale molto importante nel film. Quale è per te il suo ruolo?

I levrieri (Galgos) assolvono due funzioni diverse. La prima è strettamente narrativa; la presenza del cane da competizione offre un’occupazione ai preti. Mi sembra particolarmente irritante che questi sacerdoti che hanno compiuto crimini e misfatti vari e sono rinchiusi in questo grande carcere rappresentato dalla casa sulla spiaggia, passino le loro giornate a prendersi cura di un cane da corsa e delle sue gare ritagliandosi così uno spazio di libertà. La seconda funzione è puramente simbolica. Alfredo dice ad un certo punto del film che il levriero è l’unico cane che viene menzionato ben due volte nella bibbia – nessun altra razza canina viene mai menzionata né nell’antico, né nel nuovo testamento….

L’immagine del film è molto particolare: buia e brumosa. Come hai lavorato sulla fotografia ?

La fotografia del film è il risultato della mia collaborazione con Sergio Armstrong con cui lavoro da anni. Per lottare contro l’effetto di uniformizzante del digitale e raggiungere questo risultato abbiamo utilizzato una lente anamorfica russa. Questo è il primo film che giro in digitale. Il digitale, in generale, mi sembra orribile omogeneizza tutto. Quando giravano ancora dei film usando la pellicola, il negativo arrivava al laboratorio di un determinato paese, dove veniva lavato con l’acqua di quel paese. Attraverso il “suo” negativo ogni paese aveva un immaginario audiovisuale proprio. Con la scomparsa di questo processo, per forza di cose, tutti i film saranno in un certo senso uguali… Come si può evitare questo? Direi con molta investigazione, attraverso la manipolazione dell’ottica e l’uso di filtri. Per El Club ci siamo serviti di vecchie lenti russe anamorfiche: sono quelle usate da Tarkovsky e dalla sua generazione. L’aspetto brumoso dell’immagine è dovuto a queste lenti di cromo.

La musica sottolinea in modo particolarmente riuscito l’atmosfera del film. Come hai proceduto nella composizione della colonna sonora?

Nel film ho usato musiche di Bach, di Benjamin Britten, di Arvo Pärt ed alcune composizioni originali del  musicista cileno Carlos Cabezas con cui avevo già collaborato per il mio film precedente, “No”.

Con Sebastian Sepulveda abbiamo iniziato a processare lentamente la musica man mano che guardavamo le immagini. Sono sempre stato un fanatico della musica classica, specialmente di quella del XX secolo; il soggetto e l’atmosfera del film mi davano finalmente l’opportunità di potermi servire delle opere di quei compositori che io considero come i veri padri della musica cinematografica, melodie di una grande potenza espressiva ed emotiva che hanno funzionato molto bene nell’insieme del film.

Quali sono secondo te le ragioni della straordinaria emergenza del cine Cileno in questi ultimi anni?

Il cinema cileno in questo momento è caratterizzato da una grande diversità. Il suo successo è dovuto principalmente a due fattori; al lavoro e al “talento” di molte persone, registi, attori e tecnici, lo dico anche se la parola talento per me è di cattivo gusto ed ha una connotazione molto strana. Direi che lavoriamo duro e che siamo ben organizzati. Produrre dei film in America Latina non è facile; certo, se qualcuno vuole, con un paio di amici attori e uno smart phone può fare un film, ma questo non significa che qualcuno andrà anche a vederlo. In Cile esiste un fondo per l’industria audiovisuale, il Gruppo Cinema Cile, che finanzia una dozzina di film all’anno fra cui una o due opere prime, allo stesso tempo però ci sono anche 7000 nuovi laureati all’anno e tutti vogliono girare un film! Riuscire a montare un primo film è, dunque, estremamente difficile. Il Cile è un paese individualista ma quando si tratta di raggrupparsi in un sindacato lo facciamo molto bene. Il sindacato cileno dei produttori cinematografici è un caso esemplare in America Latina e sono molto orgoglioso di farne parte! Poi ci sono anche dei fondi provenienti dall’estero come quello di Cinema du Monde ed alcuni fondi in Spagna, nel frattempo però abbiamo imparato, a nostre spese, che non tutti i film devono venire finanziati attraverso delle co- produzioni. Per dare dei buoni risultati una co-produzione deve essere ‘organica’ rispetto alla storia che si vuole raccontare. La cosa peggiore che si possa fare ad un film è quella di ‘tradirlo’ ingaggiando degli attori stranieri con lo solo scopo di  attirare dei finanziamenti. La situazione è molto complessa; in questo momento ci sono cinque generazioni che fanno cinema in Cile! Certo la mia generazione cioé quella di Sebastian Silva, Sebastian Lelio, Matias Bize, SebastianSepulveda,Matias Lira – solo per fare alcuni nomi- ha un’energia ben distinta da quella della vecchia guardia, di registi come Patricio Guzmàn, per esempio. Noi cerchiamo di fare dei film che possano andare incontro al pubblico, ci sentiamo in debito nei confronti degli spettatori nel nostro paese e vogliamo essere loro vicini. ‘Avere talento’ significa, in questo contesto, essere capaci di creare dei film con un linguaggio universale che possano, allo stesso tempo, toccare la gente del nostro paese.

Come ti senti e cosa ne pensi del fatto che Jafar Panahi, che ha vinto l’Orso d’oro, non possa essere qui  per ritirare il suo premio di persona?

Jafar Panahi non può essere con noi a Berlino perché le autorità del suo paese ritengono che la sua attività sia pericolosa… Ma Panahi non ha un fucile in mano, Panahi non fa null’altro che girare dei film solo che i suoi film sono talmente profondi e corrosivi da mettere le autorità in uno stato di allerta. Il fatto che un cineasta venga attaccato dalle autorità del suo paese semplicemente perché mostra un certa realtà deve farci riflettere!

Le foto sono di Maria Giovanna Vagenas

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2 commenti su “65 BERLINALE / CONVERSAZIONE CON PABLO LARRAIN VINCITORE DEL GRANDE PREMIO DELLA GIURIA PER EL CLUB

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